Primo Maggio fra poesia e tradizioni locali. La figura delle “maggiaiole” e l’apporto fondamentale di Idalberto Targioni con la sua poesia.
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Il maggio e i Maggiaioli vengono oggi declinati esclusivamente al maschile, sulla scia di un grande lavoro di riscoperta e valorizzazione delle tradizioni popolari compiuto sulla Montagna Pistoiese e nella Maremma, legati da sempre al canto itinerante dei Maggiaioli, di solito un gruppo misto di uomini e qualche donna.
La tradizione del Montalbano, che accomuna la soprannominata Festa dei carciofi di San Pantaleo di Vinci (l’ultima domenica di aprile, festa purtroppo smarrita) direttamente alla storica festa del Maggio di San Baronto (il 1° maggio) è invece legata alla presenza anche di un gruppo autogestito, quasi trasgressivo, esclusivamente di donne che venivano dalla pianura a cantare il Maggio agli uomini e al pubblico delle feste. Le salutatrici, da noi note come le cembalaie del Maggio di San Baronto e, sulla base di recenti riscoperte d’archivio, anche di altre località dei dintorni, nelle domeniche successive, sono ampiamente documentate da Renato Fucini (in “Acqua passata”), che in gioventù le ricordava “vestite in costumi bizzarri e infiorate di biancospino e di margherite selvagge, la trinciavano a giovani e vecchi, strillando coi loro cembali in aria; gl’improvvisatori si sfidavano fra loro a decine, sparpagliati in gruppi d’attorno alle mense in disordine, o al sole in mezzo ai prati, o all’ombra dei castagni; i colascioni ronfiavano all’ombra del majo fiorito, e al ritmo d’un frastuono che pareva musica, cinquantine di coppie saltavano in tondo sull’erba”.
Si tratta quindi di un’espressione tipica della radice rinascimentale fiorentina urbana del Maggio, che a sua volta probabilmente si rifaceva a miti della classicità latina (il cembalo richiamerebbe addirittura alle Baccanti), che è sopravvissuta fino a qualche decennio fa nella tradizione rurale del Montalbano e in poche altre zone della Garfagnana e del Falterona.
La ricerca sulla provenienza di queste locali maggiaiole è attualmente in corso, nella speranza che la tradizione possa ben presto tornare, magari rinnovata, così com’è successo con le befanate liriche della vigilia dell’Epifania, trattandosi di un rito antichissimo e di una peculiarità del territorio. (Paolo De Simonis e Claudio Rosati, Atlante delle Tradizioni Popolari nel Pistoeise, Pistoia, 2000, pag. 99 e ss.; Nicola Baronti, La Via di Caterina, Fucecchio, 2009. pag. 30 e ss).
La tradizione delle maggiaiole, legata a un maggio di altri tempi, veniva soppiantata nei primi del Novecento dal nuovo maggio dei lavoratori, con dispiacere dello stesso Fucini che, tornato più grande a San Baronto, trovava le signore con i cembali assai invecchiate, senza un ricambio generazionale, e nuovi spiriti. Non v’è dubbio che le cose cambiarono molto con l’ufficializzazione del Primo Maggio come Festa dei lavoratori, in Italia a partire dal 1891, quando due anni prima era stata ratificata a Parigi dalla Seconda Internazionale, organizzazione che aveva lo scopo di coordinare i sindacati e i partiti operai e socialisti europei. L’origine della festa, per chi non lo sapesse, è statunitense, a ricordo della tragedia della rivolta di Haymarket, avvenuta a Chicago nel 1886. Dopo un clamoroso sciopero, proprio il primo maggio, per la riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore il giorno, quando all’epoca si lavorava dalle 12 alle 16 ore al dì. In seguito scoppiarono vari disordini, per i quali furono condannati sette lavoratori tra l’indignazione generale. Il riverbero di quel movimento socialista arrivò con grande vigore in Europa, in Italia, fino alle pendici del Montalbano, per opera di quegli improvvisatori che dividevano con le stornellatrici il palcoscenico dei prati, fiori e le quinte dei castagni nel ricordo del giovane Fucini.
Il più grande dell’epoca fu senza dubbio Idalberto Targioni (1868-1930), arrivato in queste terre da Firenze, per essere stato adottato da due contadini di San Baronto, Domenico Capecchi e Giuditta Giraldi. Da gettatello (com’erano chiamati gli orfani dello Spedale degli Innocenti di Firenze) al Bastardo, che fin dall’età di dieci cantava a memoria Dante e Ariosto, incantando i contadini del posto, a diventare il Diavolo Rosso ci volle ben poco.
Anticlericale fino all’osso, cantò la miseria e la voglia di riscatto della povera gente del Montalbano, ma fu molto attivo anche nell’Empolese («Cos’è mai questo popolo festante/Che in Empoli s’aduna? In lui si vede/ Splendere il raggio d’una nova fede; Ond’è che il fiero capo alza gigante”», scrive per l’inaugurazione della Camera del Lavoro di Empoli ne Il Canzoniere, 1902).
Cos’è che accomuna il Targioni al Maggio tradizionale? La poesia. Come nell’uso dei grandi poeti del Rinascimento, molte sue composizioni sono dedicate o scritte proprio per il Maggio, meglio il Primo Maggio. Nel suo terzo Canzoniere del 1912, si contano ininterrotte le composizioni dedicate al Primo Maggio dal 1907 fino al 1912. La più bella resta senza dubbio però il Primo Maggio 1902, ovvero “Il mio testamento”. Pubblicata sul Canzoniere del 1902, è un’opera che per decenni è stata ricordata a memoria dai poeti del Montalbano. Non la pubblichiamo, ma lasciamo che a leggerla sia la pronipote del Targioni, Simonetta Chiappini (che tra l’altro ha partecipato alla Veglia dei Poeti on line), che con grande generosità ha recentemente messo a disposizione degli storici e degli appassionati l’archivio del suo avo, personaggio indubbiamente importante, ma altrettanto complesso, contraddittorio nella sua vicenda umana e politica, travolto e sconvolto dal fascismo, fino a diventare per molti il “Traditore” di quei valori cantati in gioventù. La poesia resta tuttavia una delle pagine più indicative della sua esperienza umana, la sua salvezza e il suo riscatto dalla miseria, evidenziando per quell’epoca da poeta autodidatta una formazione culturale di ampio respiro e di grande libertà.
Il video è tratto dalla Veglia dei Poeti-on line. Grazie ancora a Simonetta Chiappini per il prezioso contributo.
Nicola Baronti