Vinci fra i cognomi italiani. Un viaggio attraverso la Penisola alle origini del toponimo della nostra città usato come patronimico.
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Su tutto il territorio italiano, il cognome Vinci, oggi appartiene a un numero abbastanza alto di persone; all’incirca 3485, con un numero massimo pari a 1223, in Sicilia, e un numero minimo rappresentato da tre Vinci, residenti in Molise.
Attualmente sono 860 i comuni italiani dove è presente il cognome Vinci, di cui 72 in Sardegna. Nel panorama dei cognomi, Vinci ha origine in gran parte del sud Italia e in città aventi onorificenze come nobili, baroni e addirittura santi. Insieme a Vinci si unisce il cognome Vincis, che invece è presente in 90 comuni italiani, di cui 40 in Sardegna. Ma queste famiglie provengono tutte dalle nostre parti?
La partecipazione nel 2015 della tennista Roberta Vinci alla finale da sogno, tutta italiana, degli US Open di New York è stato l’ulteriore spunto per una riflessione sulla derivazione del cognome.
Non occorre andare troppo lontano per trovare dei “Vinci” che non sono legati al nostro Vinci Fiorentino. Già nella metà del 1400, su alcuni documenti, si trovano notizie di un certo rimatore: Antonio Cammelli detto “il Pistoia”, meglio conosciuto come Antonio Vinci o Vincio. Cammelli era nato nel 1440 a Pistoia da una famiglia oriunda di Vinci. Anche il Vinci in questione usava come appellativo il luogo d’origine della famiglia, ma non si trattava di un compaesano di Leonardo. Proveniva invece da un altro paesino con un nome simile, San Piero a Vincio, o a Vico Petroso, borgata e “cappella”, cioè parrocchia, a ponente di Pistoia.
A proposito di Vinci e di chi porta il cognome stesso, la prima persona a cui dobbiamo fare riferimento, per stima e curiosità, rimane il nostro caro genio Leonardo: Leonardo da Vinci. Figlio illegittimo del notaio Ser Piero, Leonardo viveva nella casa paterna, “nel borgo di Vinci” e già nel XIII i suoi antenati si appellavano come “da Vinci”, ovvero come provenienti dall’omonimo paese.
L’origine del toponimo del paese di Vinci deriva probabilmente da quello del torrente Vincio che attraversa il territorio. Secondo altri autori deriverebbe dal latino vincus, vinci, che indica il nome dei salici dai ramoscelli flessibili, diffusi nella campagna tipica e tuttora usati per creare canestri o legare le viti. Probabilmente, da questo, hanno origine i “nodi vinciani”, emblema di Leonardo e della sua Accademia.
Come ricordano alcuni studiosi, in particolare Renzo Cianchi, inizialmente quel “da Vinci” non era un cognome. Al tempo di Leonardo, infatti, vi sarebbero state altre famiglie del posto che si definivano anche loro “da Vinci”, ad esempio i Cecchi, come si facevano chiamare più tardi vista la notorietà degli altri “Da Vinci”. Altre famiglie dell’epoca, invece, non adottavano il luogo di origine ma sostituivano del tutto il loro cognome: come i Bracci di Vinci, così chiamati dopo essersi trasferiti a Firenze, ma che in origine si chiamavano Bilicozzi. Secondo alcune ricerche, da approfondire e verificare, il cognome primitivo della famiglia di Leonardo potrebbe essere stato addirittura quello di Belegotti. Quest’ultimo deriverebbe dal soprannome dato al fratello di Leonardo, Giovanni Da Vinci, oste e beccaio, a Vinci, di una locanda sulla piazza del Mercatale del paese (oggi, tra Piazza Leonardo e Via Montalbano).
È curioso osservare che Giovanni di Ser Piero Da Vinci o meglio, Giovanni di Ser Piero Belegotti Da Vinci, tra racconti e dicerie aveva la fama di essere un buon bevitore, sottolineata dall’esclamazione: “be’ li gotti!” (beve i gotti!), trasformandosi successivamente in “belegottis“, ovvero bevitore di gottini (così in Renzo Cianchi, “Giovanni Da Vinci fratello di Leonardo, oste e beccaio sulla piazza del Mercatale e festaiolo della Compagnia dello Spirito Santo“, in Strumenti-Memoria del territorio di Vinci, 1977, pp. 15)
Un lungo via vai di storie e ricordi di Vinci e sui tanti signor Vinci sparsi in Italia, che aprono uno spiraglio interessante anche su ciò che accade oltre le mura del borgo di Leonardo.
Elena Parri
Questo articolo è stato nel 2016 sulla rivista dell’associazione Orizzonti