Un lungo pezzo che collega le Idi di marzo di Giulio Cesare alla storia di Filippo Ciompi, fra tradimenti e vox populi, alla ricerca della verità.
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Le Idi di Marzo richiamano indubbi ricordi scolastici: il cesaricidio del 15 marzo 44 a.C., ovvero l’assassinio di Giulio Cesare da parte di un gruppo di senatori romani spaventati dal suo successo, temendo che si proclamasse re di Roma.
Ma quelle Idi, termine usato per indicare i giorni a metà mese del calendario romano, tornano alla mente anche per la famosa frase che Giulio Cesare, trafitto da ventitré pugnalate, avrebbe sussurrato dopo il primo colpo a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”.
Cesare non fu difeso, rimase lì, ferito mortalmente dai suoi precedenti amici, finché tre schiavi non lo riportarono alla sua abitazione. Su quell’episodio, al di là di dove potesse stare la ragione (alla base c’erano anche motivi personali), pesa indubbiamente un tradimento politico che anche l’onnipotente Cesare fu costretto a ingoiare nel suo ultimo sussurro vitale.
Verità storica o leggenda? Chissà? Ma quel tipo di tradimento, un tradimento politico, è sempre oggetto di testimone nella Storia, seppure spesso la Storia non ricordi nelle conseguenze del gesto le altre vittime vere e proprie (i cesaricidi, alla fine, furono a loro volta vittime di vendette e morti cruente). Forse per questo motivo, le idi marzoline mi ricordano anche la riscoperta, assieme a un caro amico – Francesco Cianchi -, di un personaggio non originario di Vinci, ma vinciarese per storia, vittima, a suo dire, di un “tradimento di ideali” e per quasi un secolo di una tremenda damnatio memoriae. Eppure, andando a ricercare negli archivi comunali (e non solo), in questi anni, mirando al personaggio, si scopre che indubbiamente movimentò, e non poco, la vita politica di fine Ottocento dell’ameno paesino di Leonardo.
Una vera spina nel fianco per politici, persone della cultura dominante, presunti benpensanti. Ne uscì probabilmente vittorioso nello spirito, mai domo, ma sconfitto, materialmente sconfitto, per le gravi conseguenze subite nella vita familiare e nella professione (costretto ad abbandonare Vinci, con difficoltà a trovare nuovo incarico, morto in povertà).
Credo che il dottor Filippo Ciompi meriti però di essere riabilitato all’attenzione pubblica. Una vittima – a suo dire – del tradimento degli ideali politici ispirati dall’Unità d’Italia, con una vicenda dai toni che si confondono con altre analoghe dei nostri giorni.
In breve, la storia.
Filippo Ciompi venne nominato medico condotto della sezione Tramontana del Comune di Vinci con delibera del consiglio comunale in data 27 gennaio 1881. L’anno successivo, un’ottantina di abitanti lo denunciarono all’autorità comunale, asserendo che non svolgesse accuratamente le sue funzioni, e ne chiesero il licenziamento. La giunta assunse (sommarie, a dir poco) informazioni attraverso le quali si convinse che il reclamo presentato dagli abitanti di Vinci dovesse essere considerato fondato e deliberò il licenziamento del dottor Ciompi il quale, oltre ad essere stato inadempiente alle sue funzioni, si sarebbe reso anche responsabile di offese triviali verso le autorità comunali. Pochi giorni dopo questa delibera, il 27 agosto 1882, il dottor Ciompi fece stampare dei volantini, attraverso i quali inveiva contro il consiglio comunale, e li affisse nel Castello di Vinci, nel Borgo alla Madonna, in varie parrocchie del Comune e perfino a Empoli.
La giunta, ritenendo oltraggioso il volantino e ravvisando nel medesimo gli estremi del reato di libello famoso, trasmise la protesta del Ciompi al procuratore del re a San Miniato, senza presentare querela contro il sunnominato. Il Procuratore incaricò il pretore di Empoli di investigare sull’accaduto. Quest’ultimo, dopo aver interrogato l’avvocato Roberto Martelli, assessore e facente funzioni di sindaco del Comune di Vinci (dal 1883 sindaco a tutti gli effetti fino ai primi del Novecento), ritrasmise gli atti al procuratore del re, il quale promosse d’ufficio azione penale contro il Ciompi per offesa a pubblici ufficiali, e per contravvenzione alla legge di pubblica sicurezza, avendo il medesimo fatto affiggere la protesta a stampa, senza averne conseguita l’opportuna licenza.
La lite, fra cause, querele, contraccuse, e appelli, si protrasse per lungo tempo, sfociando, perfino a Roma in Cassazione. Il Ciompi fu assolto dall’imputazione per libello famoso, fu condannato al pagamento di 5 lire per aver affisso la protesta senza averne avuto l’autorizzazione e infine fu condannato alle spese di giudizio. Ma ciò che più l’afflisse, e che certamente originò il risentimento e lo sfogo, fu la conferma del licenziamento.
Come abbiamo riscoperto il famigerato Ciompi? In un vecchio libretto dal medesimo pubblicato nel 1906, pressoché dimenticato, ma fortunatamente conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, nel quale pubblica tutte le rime incriminate con una “avvelenata” finale nei confronti dei propri accusatori, considerati dei traditori. Il motivo è facile a dirsi. Il Ciompi più anarcoide che socialista, come si definiva, accusava apertamente quelli che lui definiva i signorottoli locali di avere tradito gli ideali garibaldini, di cui si erano fatti portavoce e vanto, per poi diventare i nuovi padroni di Vinci.
In pratica li accusava di aver tradito, al pari di tanti altri, gli ideali risorgimentali e di avere lasciato la gente del Montalbano in una condizione di estrema povertà, fregandosene e mirando al proprio potere personale.
La sua raccolta poetica inizia, non a caso, con la dedica a Italia Donati (1863-1886), tragica eroina ottocentesca, suicida a causa dei soprusi di un sindaco e delle infamanti dicerie della gente di Porciano: “E tu vergine fiore,/Cui l’alito fetente/Della calunnia non macchiò il candore,/Graziosa eroina,/Che lo schifoso feudo prepotente/Precipitò in rovina,/Ma non carpì l’onore”.
Alla sua storia il Ciompi accomuna la propria, addirittura precedente di qualche anno. “E il seppe Italia! … Ed ammirò la gente/I Medici (il Ciompi) gittar sul lastricato,/ E le Maestre (la Donati) trascinare a morte!”
L’accusa è al sindaco e all’altro signorottolo locale (un conte), noto possidente, di avere utilizzato la povera gente, inculcandogli false idee e inducendola a gettare nei loro confronti fango, per coprire i propri interessi.
In effetti, nuove ricerche conducono ad altri documenti da cui risulta che il Ciompi organizzasse addirittura una controraccolta di firme in sua difesa (si vede che non tutta la popolazione era schierata con il potentato comunale), ma tuttavia era costretto ad andarsene, ancora una volta, con proclami stampati e appesi sui muri, successivamente intervenendo di nuovo e pesantemente nello sconfessare le azioni politiche degli amministratori locali, dando non poco lavoro alle guardie municipali.
Ma la chicca, se volete, dell’avvelenata (ode) finale del suo libretto, dedicata al proprio persecutore (il sindaco), sicuramente del 1906, è l’inizio e la fine, nella quale il medico umanista e poeta fa un elenco di traditori, augurando al sindaco “vampiro” il peggio che ci si possa attendere in questo e nell’altro mondo.
Già in tempi precedenti aveva scritto sui muri di Vinci: “A tal razza si e no cavaliera/La fronte mostrerò superba e altera,/E il saluto sarà: ite per merda/ Che Dio vi sperda”.
E ora, ecco una bella sfilza di traditori e mentecatti.
L’ode finale così inizia: “Vincesti, o Galileo! Or perché all’altra/Tazza dell’odio bere anco tu vuoi?/La tua di Maramaldo non men vile/Vendetta fu”. Dopo un bel ripasso scolastico, scopriamo dietro a questi versi due personaggi storici di epoche assai diverse, “Galileo hai vinto!” (Vicisti, Galilaee) non sarebbero altro che le ultime parole dell’imperatore romano Giuliano l’Apostata (330-363), dopo essere stato ferito a morte in un’imprudente spedizione contro i Persiani. Il Galileo a cui fa riferimento è addirittura Gesù. Giuliano infatti è stato l’ultimo imperatore ad aver tentato, invano, di restaurare la religione pagana nell’Impero Romano. Il verso è un chiaro riferimento all’anticlericalismo che muoveva molte coscienze del tempo, che poi magari si ritrovavano – come accusa il Ciompi – a pranzo e a cena per la festa patronale di Sant’Andrea con i preti del tempo per decidere le sorti del paese.
Per Maramaldo servono meno commenti: basta recarsi a Gavinana per ricordare la strenua lotta finale di Francesco Ferrucci (1489-1530) per la difesa della Repubblica Fiorentina, stroncata dagli imperiali, tramite la mano vendicativa di Maramaldo, dando vita di fatto al Granducato di Toscana. Insomma, a suo avviso, un proclama per le libertà civili soffocate dall’altrui viltà (anche contro la monarchia del tempo, il Ciompi è senza dubbio un repubblicano).Andiamo subito al finale dell’ode, invitando magari a leggerla per intero (“Befanate e scherzi in poesia”, Sarnus, Firenze 2011 – Catalogo Vinci nel Cuore. Archivio dei Poeti, II, 2012), dovendo saltare tutto l’elenco dei presunti traditori locali, empolesi e della Valdelsa: “Così raggiunta la tua meta” – augura ormai un “esaltato” Ciompi al suo persecutore – “i Gouse/Gli Esterazzi e Mercier compagni avrai/Emuli eguali eroi amoreggianti/Colla figlia del Sonno e della Notte./Allora, come Bruno erto sul rogo/In atto fiero il Vaticano guata,/T’ammirerò la fronte al sen confitta”. Ma chi sono costoro? Si tratta di alcuni protagonisti dell’affare più importante di fine Ottocento: il caso dell’ufficiale alsaziano di origine ebraica Alfred Dreyfus (1859-1935), falsamente accusato e condannato di tradimento per comodità di una lobby del tempo. Una storia che il bellissimo film di quest’anno di Roman Polanski ha riportato in auge anche sé, da oltre un secolo, è l’esempio del pericolo del dileggio e del tradimento della verità. Il caso Dreyfus è stato il primo scandalo mediatico di tutti i tempi, dividendo la società del tempo, non soltanto francese, tra innocentisti e colpevolisti. Dietro quindi agli Esterazzi della poesia del Ciompi si nasconde Ferdinand Walsin Esterhazy (1847-1923) ovvero il militare d’origine ungherese, noto bevitore e giocatore d’azzardo, agente segreto francese, che avrebbe dato origine all’affare Dreyfus, falsificando le prove di tradimento. Dietro a Gouse, per un refuso si nasconde, il maggiore Generale Charles-Arthur Gonse (1838-1917), vice capo di Stato Maggiore, che di fronte alle prove schiaccianti che Ferdinando Walsin Esterhazy era colpevole di spionaggio per il quale invece Alfred Dreyfus era stato ingiustamente condannato, per leggerezza e trascuratezza si rifiutò di riconoscerne l’innocenza. Mercier è Auguste Mercier (1883-1921), il generale, ma soprattutto politico, ministro della guerra nei giorni in cui scoppiò l’affare Dreyfus, che nulla fece per la difesa della verità. E l’espressione finale di fierezza del povero Ciompi in questa sua ode – sempre più fuori dalle righe dell’umana convivenza – è pari a quella di Giordano Bruno (1548-1600) dinanzi all’imposizione del crocifisso sul rogo romano, dopo la condanna inesorabile del tribunale a seguito dell’ennesima rinuncia all’abiura e all’anonima falsa e denigratoria denuncia di ateismo e di congiura contro il Papa. La fierezza della Verità, si potrebbe dire. La stessa di Alfred Dreyfus quando, riconosciutane l’innocenza, venne reintegrato nei ranghi e nominato Cavaliere della Legion d’Onore, così come scrisse un giornalista del Corriere della Sera rimase: “immobile, quasi stecchito, la testa alta, lo sguardo smarrito come in un sogno […] Invano, il colonnello gli comanda di mettersi a riposo. Egli non comprende. Sembra una statua del dovere o del dolore“. E quando i presenti lo inneggiano con «Viva Dreyfus!» egli subito corregge: «No. Non viva Dreyfus. Viva la Repubblica e viva la Verità».
Storie potenti e poderose, che ancora inducono a pensare alla fragilità dell’opinione pubblica e alla capacità del potere di manipolare il pensiero collettivo, magari sventolando miti e ideologie. Non sono romanzi o storie di un tempo rispetto al potere di chi gestisce gli odierni suggestivi e subliminali mezzi di comunicazione.
In un secolo in cui il tradimento degli ideali è stato sempre più declinato come trasformismo, non facendo scandalo, anzi esempio di capacità critica. E allora forse c’è da domandarsi se ancora esistono i fragili, ovvero i Filippo Ciompi, le Italia Donati, gli Alfred Dreyfus, che per avere creduto a una giusta causa sono stati poi strumentalizzati o accusati, con leggerezza e superficialità, senza amore della Verità.
Nicola Baronti
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P.S.: le foto che accompagnano questo articolo sono tratte dallo spettacolo “Il garibaldino vinciarese”, messo in scena dalla compagnia teatrale Unicorno, in cui è stata riproposta la storia di Filippo Ciompi e Italia Donati (2013).